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2 APRILE – GIORNATA SULLA CONSAPEVOLEZZA SULL’AUTISMO

La Giornata del 2 aprile è stata istituita nel 2007 dall’Assemblea Generale dell’ONU, come ricorrenza per richiamare l’attenzione di tutti sui diritti delle persone nello spettro autistico. Il mondo illumina i suoi monumenti principali con delle luci blu.

Sono talmente tante le cose che vorrei dire che non riesco ad organizzarle nella testa. Il mio primo incontro con l’autismo è stato 5 anni fa, ed io che ero cresciuta con l’idea che gli autistici fossero come Forest Gump o Rain Man, ho scoperto che esistono miriadi di realtà diverse, e che ogni individuo è unico. Ho avuto la grande fortuna di trovare una famiglia che mi ha dato il tempo di capire e di formarmi, mi ha dato fiducia e questo mi ha resa più forte e deteminata nel dare il meglio e nel crescere professionalmente (anche se la stada è lunga). Il mondo dei ragazzi autistici, è un mondo a parte e chissà dove è la chiave;  a volte mi capita di pensare a quanto sono belli e distanti, a come mi sembra di essere vicina a qualcosa ed invece realizzare che non lo sono affatto.

Negli anni si sono sprecate le teorie, ogni anno nascono scuole di pensiero nuove, mentre loro chiusi in un regno tutto loro continuano a non guardarci, a non considerarci e a vivere la loro vita, senza bisogno o voglia di essere trasformati o incanalati. Lavorare con loro per me è un privilegio, perchè imparo tante cose, perchè è una sfida continua e perchè quando non sono soddisfatta dei miei risultati vedo la determinazione loro e delle loro famiglie che quotidianamente provano e riprovano fino ad ottenere un risultato.

La consapevolezza quale è o dovrebbe essere?  di cosa dovremmo essere consapevoli? Perchè questa giornata è accompaganta da questa parola? forse perchè il mondo dovrebbe sapere che esistono, che sono tanti, che non sono strani, sono solo loro stessi.


TESTIMONIANZA

la mamma di Theo, 17 anni, ragazzo con autismo

Un caldissimo giorno d’agosto nasce Theo, è stato faticoso, mi ci sono voluti 4 giorni per partorire, ma poi il dolore, la fatica, tutto sparito in un istante. Solo gioia, immensa.

Parto naturale a termine, 9 di apgar, si attacca al seno subito e poi allattamento esclusivo, cresce rapidamente ed è bello come il sole.

Impara presto a parlare, è curioso, molto precoce nell’apprendimento, comunicativo, un pò gattone pigro nelle attività motorie, gli piacciono i libri, giocare in compagnia, impara le canzoncine, gli piace la musica: se sente improvvisare uno strumento a fiato fa altrettanto e poi sorride, è solare e molto socievole.

Piange raramente, anzi, inizia a piangere quando per lo svezzamento riduco il numero delle poppate, mi guarda implorante, sembra mi rimproveri di allontanarlo ma poi supera questo dolore e cresce, sono una mamma felice e soddisfatta.

Arriva una sorellina, lui ha poco più di due anni, il giorno in cui lei viene al mondo mi chiede: “Posso toccarle il piedino”? E poi commenta sorridente: ” Mi sembra come una patatina”!

Ha già iniziato a frequentare il nido e lo ha fatto senza traumi, gli piace.

Ad un mese circa da questi due eventi quasi concomitanti, Theo improvvisamente comincia a fissare il vuoto davanti a sè a lungo, rifiuta il gioco condiviso, si isola. Le filastrocche, le canzoncine e le altre cose che trovava tanto divertenti sembrano non interessarlo più. Sovente rifiuta persino la lettura delle fiabe, i libri restano in cima ai suoi interessi ma preferisce osservarli da solo. Catturare la sua attenzione diventa sempre più difficile, non si gira quando lo si chiama, lo fa solo dopo parecchia insistenza.

La sua educatrice, dietro richiesta di un parere, mi rassicura e noi ci facciamo l’idea che tutte le attenzioni per arginare l’arrivo “dell’intrusa” non siano state sufficienti, che Theo comunichi in questo modo il suo disagio, del resto ormai ignora totalmente sua sorella.

Passano alcuni mesi, permangono questi comportamenti, se ne aggiungono altri, cose che troviamo buffe, bizzarre, siamo lontanissimi dall’idea che ci possano essere dei problemi.

Poi c’è una lunga vacanza lontano, tante persone intorno, il bambino non è avvezzo a questo turbinio di baci, voci, richieste, ci sono anche lo svezzamento del pannolino, l’assenza del babbo: Theo è nervosissimo, quasi ingestibile, sono stanca, esasperata, mi arrabbio. Difronte a miei dinieghi compaiono atteggiamenti autolesionistici, sono drammaticamente preoccupata e ancora lontana dalla verità.

La mazzata arriva da un’amica d’infanzia, un’insegnante elementare che ha lavorato a lungo come insegnante di sostegno. Con molte difficoltà mi comunica telefonicamente quello che pensa: “Secondo me tuo figlio è autistico”.

Resto paralizzata…trenta secondi, non di più, rapidamente rivedo nella mia testa cosa ne so: praticamente niente, scarne informazioni lontane nel tempo. Ma non perdo la calma, la ringrazio, visualizzo una finestra aperta: ecco allora cos’è, ecco perchè il mio bambino è così. Mi affaccio a quella finestra, fuori solo un bianco accecante ed infinito, un precipizio senza alcuna forma, dentro me la destabilizzante sensazione che deve provare qualcuno tenuto per anni nell’oscurità totale e portato alla luce…

Mio marito a distanza si arrabbia, comincia ad inveire contro me e la mia amica, il pediatra minimizza ma ammette di non sapere nulla della materia, ma io sono sui binari giusti, lo sento fortissimamente, abbasso la testa e vado diritto, come un ariete, voglio arrivare in fondo, se sbaglio, fare pubblica ammenda sarà la più tenue delle umiliazioni.

Ma purtroppo non mi sbaglio, a distanza di pochi mesi il piccolo viene osservato da un team di esperti, io intervistata, vengono osservate le dinamiche tra me e mio figlio, vengo inviata da una neuropsichiatra che non conosce il bambino e che ha il compito di fornirmi la diagnosi.

Questa in sintesi viene confermata, la accolgo “serenamente” perchè ne ero già persuasa, ma vengono usate altre parole che non conosco, non comprendo e che mi confondono: DGS, Disarmonia dello Sviluppo, deficit attentivo, disturbo della comunicazione senza altre specifiche. Allora non è proprio autismo? Mi domando.

Nella testa avrei mille domande, la prima cosa che chiedo è: “In cosa ho sbagliato”? Al di là delle superate teorie sulla mamma-frigo delle quali in seguito sarò ben edotta, la prima cosa a cui ho pensato è d’essere responsabile dei problemi di mio figlio e quanti genitori ho conosciuto persuasi o convinti della stessa cosa…

La neuropsichiatra mi risponde che non ho responsabilità e che non ci sono certezze d’alcun tipo circa le cause, ma che le terapie possono aiutare molto a migliorare, a superare difficoltà e…rullo di tamburi: AD USCIRE DALL’AUTISMO.

Sono una persona che tende a non manifestare le proprie difficoltà, pur essendo tutt’altro che timida ho molto pudore dei miei sentimenti. Sono pragmatica, sognatrice ma coi piedi saldamente ancorati a terra, realista tendenzialmente pessimista, convinta che anche le certezze assolute possano essere capovolte da nuove scoperte e che quindi mai nulla debba esser dato per scontato.

In quel momento la testa mi ronzava come un alveare, il mio cervello processava velocissimamente le informazioni, le sensazioni, i sentimenti, le mie possibilità mentali e quelle materiali, mio figlio, mia figlia piccolissima, niente famiglia, amici lontani, l’ostilità di mio marito, la mia condizione di difficoltà dovuta alla scelta di vivere in un posto incantevole ma isolato, l’impossibilità di lavorare in una situazione così complessa.

Ho preso tempo, concentrandomi solo sull’indicazione delle terapie che andavano intraprese al più presto, dandole la precedenza, cosa che ritenevo più importante.

Ho messo da parte tutto il resto, ho chiuso con un turacciolo le mie emozioni e valutato che mio figlio non aveva bisogno nè delle mie lacrime nè della mia disperazione e che non dovevo perdere tempo.

Così da sola a lungo, perchè per mio marito ci sono voluti alcuni anni per accettare l’autismo di nostro figlio ed affrontarlo anche nelle pratiche quotidiane, mi sono tuffata in questa avventura.

La determinazione a strappare Theo dal suo isolamento ed a far funzionare gli ingranaggi complicati della nostra famiglia, mi hanno distolta dal pormi tante domande nell’immediato, sull’adeguatezza dei sistemi di supporto medico alla famiglia ad un problema così complesso ed articolato com’è l’autismo.

Le terapie quindi iniziano, ma sono terapie blindate, non si può sapere se non vagamente nè vedere cosa succeda durante queste attività, io mi rendo conto subito che l’autismo prevede una terapia continuativa e globale, che ogni passo, parola, gesto può cambiare in meglio o in peggio la situazione generale di mio figlio.

Comprendo che devo impegnarmi con tutte le mie forze. Ma nessuno mi dice niente, mi spiega come e cosa fare, negli intenti i medici sono sempre a disposizione, ma nei fatti non è così e del resto come potrebbe essere diversamente con la mole di lavoro che devono svolgere, i tagli alla sanità, le beghe personali, le tensioni professionali, la politica, il portafoglio aziendale etc. etc…

Ma chi mi aiuta? Farò bene, male? Che faccio? Mi rimbocco le maniche, provo, discuto animosamente con mio marito che spesso non mi segue negli approcci e nelle modalità che individuo ed applico per cercare soluzioni.

Non posso aspettare, il tempo è preziosissimo, il tempo di questi ragazzi passa molto più velocemente per loro che per gli altri, loro che hanno tempi diversi, che necessitano di velocità assai ridotte per apprendere, conoscere, superare o imparare a tollerare i propri deficit sensoriali, mentre il corpo cresce: spesso solo apparentemente individui sani, in una società dove tutti siamo sempre trafelati e di corsa e dove una disabilità non evidente è paradossalmente una disabilità maggiore perchè difficile da comprendere e da accettare!

Provo, provo, spingo, cambio, quando non ottengo risultati provo altre strade, sorretta unicamente da una volontà d’acciaio e dall’intuito che muove le mie scelte.

Mio figlio cresce e cresco anch’io nel frattempo, non come sarebbe normale e comune, non alla stessa maniera degli altri, devo inventare, penetrare una mente “aliena”, cercare di immaginarla di sana pianta, mica semplice, ma sono anche felice, perchè i risultati si vedono, gli operatori, gli insegnanti, i medici si complimentano, mi elogiano ed allora comincio a guardare anche oltre, a pormi ed a porre delle domande.

Mi chiedo perchè in una materia così complessa dove è dimostrato che anche nelle situazioni che appaiono disperate, quelle a bassissimo funzionamento con comportamenti-problema, si possono ottenere risultati insperati mettendo in atto corretti approcci evolutivi e comportamentali, perchè quindi in una situazione di necessità terapeutica continuativa, i genitori che seguono la maggior parte del tempo questi soggetti, non vengano formati ed informati.

Mi chiedo perchè non mi siano stati forniti dei supporti, perchè nonostante l’ostilità di mio marito e le sue difficoltà fossero note al team che segue nostro figlio, perchè non ci sia stata una presa in carico anche di questo come parte del problema, per permettere a lui di accettarlo e di poter contribuire fattivamente prima al recupero di Theo. Pure è assolutamente noto che la disabilità di un figlio può essere causa di fratture talvolta definitive tra i genitori, con conseguenze devastanti per i figli, compresi i normotipici, ed è evidente che se si lavora con un fine comune, i risultati possono essere raggiunti in anticipo, con l’effetto collaterale tutt’altro che negativo di consolidare un rapporto.

Mi chiedo perchè ho dovuto cercare le risposte da sola e perchè anche quando me le sono date o le ho trovate, abbia dovuto subire la supponenza di certi medici rispetto alla “competenza” con la quale affronto la quotidianità con entrambi i miei figli.

E mi chiedo anche perchè a certi medici dia fastidio che un genitore “pensi”, che cerchi delle risposte, che voglia penetrare il problema del proprio figlio, pur essendo questo un sacrosanto diritto.

Sembra che a certi professionisti manchi la capacità o la volontà di comprendere che forse tutto questo non è necessariamente mancanza di fiducia nel medico, un essere comunque non onnisciente, ma dipende da un vuoto che invece è indispensabile cercare di colmare.

In un problema di questa natura, tutta la famiglia è chiamata non solo a convivere ed a rapportarsi con la patologia, ma soprattutto a fare parte del piano terapeutico.

Nessuno però nonostante le mie richieste, ha saputo darmi suggerimenti circa l’affrontare il problema dell’autismo con la sorellina di Theo, nessuno mi ha aiutata quando Theo ha dovuto subire un intervento chirurgico.

Le modalità sono riuscita a trovarle da sola comunque, istinto di sopravvivenza credo.

Mi chiedo anche come si possano dare false speranze come quella che si possa uscire dall”autismo, questi sono contentini assurdi, menzogne che non indorano la pillola e che possono solo generare nuove sofferenze di fronte alle inevitabili sconfitte che ciascun genitore è destinato ad affrontare.

Credo fermamente che la prima cosa cui ogni genitore ha diritto di sentirsi dire in una diagnosi sia: “Dall’autismo non si esce, ma migliorarne le condizioni, arginarne i problemi si puó e moltissimo puó cambiare nella vita di vostro figlio grazie a voi genitori, a quello che insieme a noi medici farete”.

Queste parole possono aiutare, spronare e spingere anche le persone più disperate a credere in quello che i fatti in tutto il mondo confermano, perchè davvero un soggetto autistico, supportato correttamente da terapie abilitative e riabilitative, può raggiungere livelli accettabili di inserimento sociale ed autonomie personali.

Ovviamente a queste parole dovrebbero però seguire anche molte altre cose…

Ho avuto modo nel tempo di conoscere altri genitori, altre realtà, di confrontarmi.

Una diagnosi così tremenda ed a vita come quella dell’autismo non è un bocconcino che si possa deglutire facilmente ed ogni persona reagisce diversamente a seconda dei propri sentimenti, carattere, cultura e convinzioni.

C’è chi si arrabbia, chi lotta, chi si dispera, chi minimizza.

E c’è anche chi si chiude, chiudendo le porte al mondo ed isolandosi e rinchiudendo quel figlio in una prigione a vita senza ne abbia alcuna colpa, come se già non bastasse la prigione mentale in cui vive. Si può condannare un comportamento del genere?

Sì, se lo isoliamo da tutto il resto.

No, anzi NO se invece lo mettiamo dov’è il suo posto, nella società in cui viviamo e che tutti siamo a chiamati a migliorare.

Senza voler scrivere un manuale o un romanzo, affermo che in questa materia o perlomeno in Italia, anche nel mio territorio che rispetto ad altre regioni per l’autismo è un’isola felice, i progressi da fare sono ancora moltissimi.

Indubbiamente è necessario continuare a lavorare per comprendere le cause, proseguire le ricerche, affinare gli strumenti, potenziare le strutture che ci sono e crearne di nuove con l’obiettivo di un inserimento professionale.

Ci sono però anche altri due aspetti che ritengo urgenti e per i quali nel mio piccolo sto tenacemente lottando.

1) La diffusione delle informazioni sul problema, favorirne la conoscenza di massa.

C’è ancora troppa poca gente che dell’autismo non ha alcuna idea pur essendo un problema diffusissimo. Io stessa vegetavo nella più totale ignoranza a riguardo prima d’esserne coinvolta mio malgrado.

E ringrazio che persone come Franco Antonello nella primavera 2012, attraverso il libro “Se ti abbraccio non avere paura” ed. Marcos y Marcos scritto da Fulvio Ervas, sia entrato prepotentemente nelle case di migliaia di italiani grazie a trasmissioni televisive che ne hanno diffuso in maniera virale la notizia. In pochi mesi moltissima gente ha preso coscienza di questa realtà, molte volte inimmaginabile perchè nascosta dietro occhi dolcissimi di bambini e ragazzi solo apparentemente timidi.

2) La presa in carico delle famiglie in una terapia globale finalizzata al maggior livello di recupero in un soggetto autistico.

Di questo le aziende sanitarie devono farsene carico. Non è una cosa semplice, anzi è mastodontica, ma intanto bisognerebbe porsi concretamente il problema per gettare le basi per chi verrà.

Nel mio caso non potendo aspettare, sto imparando a camminare sulle nuvole anche se il terreno è tutt’altro che stabile. Ho l’obiettivo di riuscire a raggiungere un giorno il pianeta su cui vive il mio bambino, che lì da solo, sembra stare così bene…

Il presente articolo è parte integrante della Tesi del Mio master in Pedagogia clinica e pertanto è vietata la diffusione e la riproduzione per qualsiasi uso.


TESTIMONIANZA

di Silvia, mamma di Matteo, 15 anni, ragazzo con autismo

Consapevolezza di cosa? Consapevolezza di chi? Si può essere consapevoli fino in fondo?

Andiamo in ordine, parto dall’ultima domanda! Risposta: no. Non può esserci una consapevolezza completa: l’autismo è indefinibile, ogni persona con autismo è un caso unico ed originale, ci sono dei tratti comuni ma, proprio come ogni altra persona, ogni persona con autismo è una storia a sè. E se anche considerassimo l’autismo di una sola persona, questa, proprio come ogni altra persona, cresce, si modifica, si evolve e, di conseguenza, la sua condizione autistica.

Chi deve essere consapevole? La risposta migliore sarebbe tutti, ma realisticamente è impossibile. Sarebbe già molto trovare preparati coloro che, istituzionalmente, si occupano di persone con autismo, ma i fatti non ci confortano in questo. Il nostro mondo è, in generale, poco aperto alla persona, alla sua originalità e alle sue scelte, figuriamoci a una persona con autismo.

Consapevolezza di cosa? Principalmente che l’autismo c’è, lo troviamo in un bambino ogni 77, quindi non c’è una scuola in cui non ci sia almeno un ragazzino con autismo, lo stesso vale per le strutture sportive e ricreative in genere. Ma la consapevolezza principale è che una persona con autismo ha delle potenzialità, ha bisogno di avere insegnamenti efficaci che lo portino a poter vivere questo mondo.

Per poter emergere da questo quadro non troppo rassicurante, possiamo usare una parola: sfida.

L’autismo è una sfida per ognuno di noi, per noi cosiddetti «normali». E’ una sfida che possiamo cogliere e dominare, ci saranno la fatica, le cadute, le marce indietro, ma anche le vittorie. Le vittorie quelle belle, quelle che danno la soddisfazione vera di aver fatto qualcosa di realmente importante. Le vittorie che danno la sana fierezza di aver fatto fatica per una cosa essenziale. Ed ogni nostra vittoria sarà la vittoria condivisa con una persona con autismo e con la sua famiglia.

“Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio”, recita un antico proverbio africano, a maggior ragione se il bambino, il giovane o l’adulto ha una condizione autistica. Ognuno è chiamato a fare la sua parte!

L’autismo può essere anche una sfida che possiamo non cogliere, girare il viso dall’altra parte, far finta che non ci riguardi. A quel punto avremo perso, noi per primi, ma non avremo perso contro l’autismo, avremo perso contro noi stessi perché non abbiamo avuto il coraggio di provarci, di accettare la sfida e vincere per e con una persona con autismo.


TESTIMONIANZA

di Sissi Olivares, mamma di Lapo, 25 anni, ragazzo con autismo

Sono oramai passati 25 anni circa dal giorno in cui mi fu detto che mio figlio Lapo, 18 mesi allora, era borderline con l’Autismo…

“Ha presente una scala ? Suo figlio è lì e adesso deve decidere se continuare a salire o scendere nell’abisso “

Queste furono le parole che mi furono dette quando mi cercarono di far capire cosa succedeva a mio figlio. Il mio bambolotto che di colpo aveva smesso di parlare, rispondere, sorridere, il bambino che non voleva più essere toccato, abbracciato e reagiva picchiando la sua testolina dappertutto..muro, pavimento, finestre…Autismo.A quel tempo poco o nulla si sapeva, giusto qualcosa perché l’anno prima era uscito il film “Rainman” eppure poi mi resi conto di quanti bambini erano stati diagnosticati.Come descrivere quei momenti è difficile sai solo che vai avanti aspettando il suo più piccolo progresso, che può essere il primo bacio che torna a darti sfuggente sul dorso della mano oppure le prime parole che senti di nuovo uscire dalla sua bocca dopo anni di mutismo…Ma il sorriso che poi gli vedi riesce a darti forza..Adesso sono passati anni ed anni, la diagnosi è diventata Sindrome di Asperger cioè Autismo ad alto funzionamento e tutto questo grazie al lavoro incessante delle persone che ci sono state attorno, agli insegnanti di sostegno, gli educatori, la psicoterapeuta che ci ha accompagnato per mano tutti noi della famiglia per anni e adesso che il percorso scolastico è finito scopri che il tuo “papero” è grande.

Sa gestirsi da solo, cucinare, fare la spesa, lavorare, muoversi per la città , sta imparando cosa vuol dire lavorare con gli altri, a socializzare , a permettere ad altre persone di interagire con lui, con il suo mondo.

Ti rendi conto che è cresciuto ma rimane sempre il cucciolo d’uomo indifeso ancora davanti alle cose che non riesce a capire, come questo Coronavirus….La cosa che Lapo non è riuscito ad accettare era come la parola “positivo “ potesse significare che invece eri malato…logico vero?

Abbiamo lavorato tanto per combattere l’isolamento in cui loro si rifugiano quando hanno bisogno di conforto e adesso siamo costretti per il loro bene a fare esattamente l’opposto. Ma dopo la paura dell’immancabile retrocessione , lui ti stupisce chiedendoti sempre più spiegazioni ad ogni bollettino sui contagi, ti chiede e si interessa sempre più a quello che bisogna fare e capisce che i suoi sacrifici sono necessari e vedi che il suo mondo è riuscito ad aprirsi a questa nuova vita.

Sono sconcertata dalla loro capacità a volte di essere più logici e più pratichi di noi in alcuni momenti della vita.

Non avevo mai immaginato di poter avere un figlio autistico, ma adesso mi rendo conto che è riuscito a farmi vivere la sua vita fatta di cose incredibili, i suoi progressi che potrebbero sembrare scontati o fantastici,in modo completamente diverso se solo avessi avuto un altro punto di vista e di questo lo ringrazio.

Un grazie speciale a tutti quegli educatori e altri professionisti che in questo periodo terribile riescono a dedicare ore della loro giornata ad aiutare i nostri ragazzi attraverso video chiamate, corsi online

Siete meravigliosi ! Questa giornata sarà una festa lo stesso anche da casa perché ci abbracceremo con forza solo con il pensiero.

Grazie ancora.


ALCUNE REALTA’ TOSCANE

AlpHa Onlus

pagina Facebook: https://www.facebook.com/alpahaonlus/

L’Associazione AlpaHa Onlus nasce dalla volontà di costruire, per un gruppo di giovani con disabilità intellettiva e relazionale, un percorso che promuova una migliore qualità della vita il più possibile indipendente: liberi di lavorare, esprimere i propri desideri e talenti e di vivere con la famiglia, gli amici e la comunità di appartenenza.

 

Prossimamente un intervento a cura delle fondatrici


Allenamente

pagina facebook: https://www.facebook.com/centroallenamente/


Allenamente è un centro di apprendimento…
…dove i miglioramenti di ogni studente sono misurati e misurabili, attraverso la raccolta di dati in maniera sistematica,
…dove i risultati sono condivisi con scuola e famiglie
…dove si può osservare qualsiasi cosa accada, ogni stanza è dotata di specchi unidirezionali,
… dove si prendono decisioni educative basate sui dati,
… dove l’approccio all’educazione è positivo ed entusiasta , ad allenamente si impara divertendosi 🙂
… dove potenzialmente possiamo insegnare qualsiasi cosa a chiunque!

Prossimamente la testimonianza del dott. Jacopo Palmucci referente del centro

 

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