Buongiorno!!!
Oggi vi regalo un pò di ricette di dolci, grazie a Barbara, Sabrina e Valentina; subito dopo consigli per smaltire le calorie grazie alla coach Laura Barelli e una bella lettura per rilassarsi sul divano grazie ad Alessandra Dellanna Peccarisi..
Vi abbraccio forte
e…continuiamo a farci compagnia!!!
CACCIA AL SIMBOLO
DEL PROF. RICCARDO SPINELLI
Risposta al quesito di ieri : “San Francesco in estasi – Caravaggio“
Quesito di oggi dell’opera sottostante è: “Si identifichi l’autore e titolo”
domani la risposta….
Risento molto del tempo soprattutto in questo periodo, quindi la cosa migliore e trovare qualcosa di stimolante e creativo che ti piaccia fare..a me impastare rilassa tantissimo.. quindi mi sono messa a fare queste velocissime ciambelline..da inzuppare nel latte la mattina o nel the delle 5!
- 300 di farina
- 100 zucchero
- 8 gr lievito
- 1 bustina vanillina
- 1 uovo
- La scorza grattugiata di un limone
- 50 gr di olio di girasole
- 120 gr di yogurt
dalla nostra tradizione toscana del Giovedi Santo
Ingredienti per 8 panini:
- 250 gr farina manitoba
- 250 gr farina 00
- 100 gr zucchero
- 12 gr lievito di birra
- 170 ml acqua tiepida
- 150 gr uvetta messa in ammollo in acqua fredda
- 10 gr sale
- 100 ml olio extravergine d’oliva
- 15 gr rosmarino tritato fine
- 1 tuorlo sbattuto
In un pentolino scaldate, a fuoco basso, l’olio con il rosmarino, spengete appena inizia a soffriggere e lasciate intiepidire. Nel frattempo in una terrina iniziate a mescolare i due tipi di farina, lo zucchero, il sale e il lievito sciolto nell’acqua tiepida, poi aggiungete l’olio con il rosmarino e continuate ad impastare bene con le mani.
Quando l’olio sarà ben amalgamato aggiungete l’uvetta scolata e strizzata, trasferite tutto su una spianatoia leggermente infarinata e continuate ad impastare fino a che il panetto non sarà compatto. Lasciatelo riposare coperto da una pellicola per un paio d’ore circa.
Quando l’impasto sarà ben gonfio dividetelo in 8 parti e formate delle palline, adagiatele su una teglia ricoperta da carta da forno e lasciatele riposare un’altra ora circa sempre coperte dalla pellicola.
Dopo questa lievitazione spennellate i panini con dell’olio d’oliva e con un coltello ben affilato fate delle losanghe sulla superficie, 4 tagli profondi.
Infornate i panini a 180° circa, dipende dal calore del vostro forno, per 20 minuti. (Nel mio forno metto la teglia nel secondo ripiano dal basso).
Nel frattempo sbattete un uovo con un pochino di acqua, spennellate i panini appena sfornati e cuoceteli ancora per altri 5 minuti, finché vedrete che si formerà una bella crosticina bruna e sentirete un buon profumino.
Per un tocco di dolcezza in più spennellate i panini ancora caldi con uno sciroppo di acqua e zucchero( per questo non ho una dose precisa, in genere sciolgo un paio di cucchiai di zucchero in un 4 o 5 cucchiai d’acqua e faccio cuocere a fuoco basso pochi minuti)
- 250 gr. di cioocolato fondente
- 200 gr. di burro
- 200 gr. di zucchero
- 75 gr. di farina
- 5 uova
- un pizzico di sale
- un mandarino
per la salsa da abbinare ai frutti rossi:
- 150 gr. di frutti rossi (o fragole)
- 60 gr. di zucchero
- Olio EVO
fondere il cioccolato con il burro a bagno maria, aggiungere il pizzico di sale ed incorporare lo zucchero, la farina, la scorza di mandarino grattugiato e le uova, fino ad ottenere un composto liscio ed omogeneo. inburrare gli stampini fino ad 1 cm dal bordo, spolverizzateli con un pò di farina e mettetli in frigo per un paio d’ore.
Versate all’interno il composto ed infornate a 200 gradi per 10/12 minuti. Sforanteli e metteteli da parte.
Per la salsa mettete un fili d’olio nella pentola, aggiungete frutti rossi e zucchero e poi frullate con il mixer ad immersione e poi filtrate la salsa ottenuta.
Poi impiattate a piacere.
LEZIONE DI BASKET:
DELLA COACH LAURA BARELLI
RESPONSABILE TECNICA IN SOCIALOSA BASKET MILANO (WWW.SOCIALOSABASKET.IT)
RESPONSABILE TECNICA IN MB501 (WWW.MB501.IT)
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Una leggenda d’amore e di morte all’ombra della Focara di Novoli
Prologo – L’arte di parlare agli anziani
Fermarsi a chiacchierare coi vecchioni, la ritengo da sempre la più nobile delle abitudini. Ogni volta riscopro il valore della saggezza racchiusa nei loro aneddoti, che rivelano una capacità di misurare e raccontare il mondo in maniera ponderata e prudente, pur nei loro giudizi duri, incontrovertibili e stantii. I vecchi trattano storia, leggenda e cronaca allo stesso modo, perché, se non i libri, è sfogliando la vita, che hanno in fine deciso che sono tutti fatti del Mondo.
Il vecchio e le noccioline
Sono a Novoli a godermi l’accensione della Fòcara e a squagliare il freddo di questi giorni al teporino che irradia per centinaia di metri. Senza girarci troppo intorno, incontro un vecchio seduto su una seggiteddhra, che s’era portato dietro da casa. Intento a mangiare noccioline, me ne offre. Io accetto e iniziamo a chiacchierare. Della Focara? Meglio. Mi racconta una storia, che la mamma gli “diceva” da piccino.
Di amore e di guerra
C’era una volta a Noule, Rita, una stria (ragazza), la quale aveva un fidanzato che tanto amava. Rita aveva promesso ad Antonio la sua mano, ma anche tutta la sua vita, i suoi sogni e le sue speranze, riponendole con cura nel matrimonio, ben piegate e inamidate.
Antonio, giovane uomo, mite e onesto di carattere nonché di temperamento gioviale, era molto degno dell’affetto della giovinetta, che ricambiava con la stessa devozione. I due promessi, oltre che dal reciproco affetto erano legati da una comune passione. Entrambi amavano il fuoco e davanti al caminetto acceso, trascorrevano tutto il tempo in cui gli era concesso (da rigide e assennate norme sociali) di stare insieme. Davanti alle fiamme si erano raccontati la vita futura, quello che avrebbero voluto costruire assieme, godendo dell’attesa e della bellezza del fuoco.
Venne la guerra e lu striu partì, perché scelta non ce n’era. Ma un ragazzo che tanto sapeva farsi valere in tempo di pace, rispettato per l’ingegno, la sagacia e la pazienza, ahimè nella guerra non si seppe proprio barcamenare e fu ucciso sui monti di Trento, nella battaglia.
Rita, saputa la notizia, ammutolì per il dolore e così restò; muta per alcuni mesi, persa all’interno di sé, incapace di risalire in superficie, come affogata nello squarcio che si era aperto nel suo petto. Si faceva guidare docilmente nei gesti quotidiani, sbrigava persino le faccende, mai faceva pesare la sua condizione sull’andazzo della casa e tuttavia non parlava, non piangeva, pareva quasi che nemmeno respirasse.
Qualcosa cambiò, solo all’inizio del nuovo anno, allorquando il 7 Gennaio, accompagnata nella passeggiata mattutina dalle sorelle, vide le prime fascine accatastate per i preparativi della Focara di Sant’Antonio. Il mutamento fu bizzarramente repentino; il suo volto riprese colore e accennando un sorriso, sollevò la testa verso il sole. Al suo calore, la patina lattiginosa, che da mesi le velava lo sguardo, evaporò e Rita riprese a respirare.
Le sorelle si guardarono sconcertate ma felici. Non le chiesero nulla, perché temevano la fragilità di quel ritrovato buon umore, sicché vollero goderne, sperando che Rita vi si ‘abituasse’ e dimenticasse di ritornare a essere triste. Ma Rita, triste, non ci tornò mai più.
Tornata a casa, senza alcuna spiegazione, Rita ricominciò a parlare e pareva rinfrancata, tanto che la madre scoppiò in lacrime di gioia, sotto lo sguardo di disappunto delle altre figlie, sempre attanagliate dal timore che la sorella potesse ricordarsi l’impegno con la tristezza. Il dolore, invece pareva davvero essersi affievolito e finalmente, sembrava tornata un po’ di speranza nella vita della povera stria; questo, certo, dal punto di vista della famiglia.
Il fuoco della vergogna
Il giorno dell’Accensione della pira, la città era febbricitante come ogni anno, tutta merlettata con l’apparato di luminarie. Tutti aspettavano con gioia quell’occasione per agghindarsi e mostrare il loro vestito migliore all’occhio giudice delle fiamme di Sant’Antonio. I figlioli erano liberi di giocare per le strade, i monelli facevano scherzi ai passanti e tutti respiravano l’aria di festa, che ogni anno rinfranca i cuori dei novolesi. È come se gettassero nel rogo tutte le sofferenze, le tristezze e le angosce dell’anno passato e ipnotizzati dalle fiamme, se ne stessero lì ad ascoltare tra le vampe, grandi promesse e dolci consolazioni. Non c’è novolese, che non abbia assistito rapito alla Focara.
La sera del 16, Rita si vestì con l’abito della festa e si fece pettinare a lungo i capelli dalla madre. L’anziana donna, rincuorata da una tale vitalità ritrovata, pensò che la figlia volesse voltare pagina e fare una passeggiata per il paese, onde ricordare ai giovanotti che lei era (detto volgarmente e in modo contemporaneo) “di nuovo sulla piazza”.
Mai speranza di genitore fu tanto vana. Rita si avvicinò alla pira e ivi rimase per tutto il tempo, assente e refrattaria ai richiami delle sorelle, del fratellino e delle comari che le si accostavano per un saluto. Rita rimase lì, come impietrita, ipnotizzata dalle fiamme e sorvegliata dalla madre, la cui nuova preoccupazione aveva acceso una dolorosa ansia per la sorte della figliola, che credeva ormai irrecuperabilmente impazzita.
Quando fu ora di ritirarsi a casa, tuttavia, Rita rispose e annui docilmente all’invito materno. Solo, chiese, voleva gettare qualcosa nel falò. I genitori, ormai rassegnati alle eccentricità della ragazza, acconsentirono, a condizione di accompagnarla, perché in cuor loro – non se lo dicevano – temevano che la poverina si gettasse tra le fiamme.
Avvicinatasi alla Focara, quanto era possibile, Rita vi gettò ciò che la madre riconobbe essere una lettera. Intravedere sulla busta giallina il nome del povero Antonio, fu la conferma che sua figlia aveva perso il capo.
Cosa hai lanciato nel fuoco? – chiese la madre, convinta che Rita avrebbe mentito. La ragazza rispose con gran serenità, che aveva mandato una lettera al suo fidanzato e che era certa che il fuoco, che li aveva sempre legati e la mano amorevole di Sant’Antonio Abate avrebbero permesso a quel foglio di arrivare fino in Paradiso, dove un giorno finalmente il loro amore avrebbe avuto il giusto epilogo legando per l’eternità le loro anime.
Senza commenti, la famiglia si avviò verso casa, trascinando con sé l’angoscia per la condizione della ragazza; d’altra parte proprio lei, al centro delle attenzioni preoccupate dei genitori, era tranquilla e aveva ritrovato il sorriso perduto nei mesi precedenti.
Il mattino seguente Rita si svegliò presto e preparò il caffè per tutta la famiglia, che la trovò di ottimo umore. A metà mattinata, mentre le donne erano riunite intorno al braciere a spettegolare e cucire e ricamare, si sentì suonare tre volte il campanello. Rita scattò in piedi e corse ad aprire.
Tornò raggiante in salotto, sventolando una busta. “Per me!” disse con una naturalezza che raggelò la madre e le sorelle.
Rita si congedò e se ne andò nella curticeddhra a leggere la lettera, mentre le donne si guardavano a bocca aperta, cercando in tutti i modi di sorvolare.
Il silenzio doveva calare sull’accaduto, per amore del decoro e della decente normalità.
Non chiedere, per non sapere
A questo punto il vecchio si interrompe e prende a sbucciare meticolosamente una nocciolina. “Signuria nde vuei ddoi autre?” mi domanda.
“Grazie!” rispondo, prendendone una manciata. La Focara ha raggiunto la sua apoteosi; fa caldo, fa rumore, è bellissima. Divampa, sibila; è un boato sommesso e prolungato. “Mai pe’ cumandu, ma vorrei sapere come va a finire”.
“Comu spiccia… Questa – riprende, lo sguardo perso nel fuoco – è una favola salentina, ma se ci fai caso, figghia mia, potrebbe essere raccontata davanti a ogni camino, davanti a un fuoco in campagna, davanti a un braciere; ovunque ci sia un focolare. Perché la stria, è proprio questo che aveva perduto: il suo focolare. Allora, vuoi sapere come finisce?” e proseguì a raccontare:
Nessuno in famiglia ebbe il coraggio di chiedere alla giovane chi le avesse scritto. “Non chiedere, se non vuoi sapere – comu dicia matrima”. Forse per pudore, forse per paura di veder confermata la follia della figlia, oppure per convenienza, per timore che il decoro della famiglia andasse in frantumi, tutti tacquero. Se la lettera fosse stata firmata “Antonio”, sia che fosse uno scherzo di pessimo gusto, sia che fosse davvero l’anima del defunto a intrattenere corrispondenza con Rita, l’onore della giovane sarebbe stato macchiato. E così quello della famiglia.
“Ma come? Se fosse stato il fantasma, cosa ci sarebbe stato di sconveniente? In fondo erano fidanzati, no?”
“Era sconveniente, eccome se lo era. Tradire la possibilità di una futura unione; tradire la vita stessa con un morto, sarebbe stata la peggiore delle ignominie! Te l’ho detto figghia mia, questa è una storia salentina, non una di quelle baggianate sudamericane in cui tutto è concesso in nome dell’amore. Il decoro, per le nostre famiglie, era tutto”.
Penso che il vecchio, con “baggianate sudamericane”, forse intende le telenovelas argentine, ma io non posso fare a meno di immaginare che si riferisca a Jorge Amado. Però non approfondisco. Non chiedo. Per non sapere.
“Andiamo avanti” dico, quindi. “Se invece fosse stato uno scherzo? Cosa avrebbe costituito scandalo?”
“Beddhra mia, immagina: una giovane fidanzata perde l’uomo che ama e non ha nemmeno diritto di indossare il lutto, perché non sono ancora sposati. Una ragazza così disperata che diventa oggetto di una burla così umiliante. Se qualcuno osava prendersi gioco di lei, cosa avrebbe pensato il paese? Le avrebbero dato la colpa e da quel momento l’avrebbero vista come una persona da prendere in giro, poco rispettabile e poco incline alla serietà”.
L’unica cosa che la famiglia volle o potè fare, fu ignorare la questione e sperare, fino a convincersi, che la lettera avesse un mittente terreno, magari misterioso e che in fondo non era affar loro e che Rita era adulta e quasi ci speravano avesse già un altro spasimante, perché sì, non poteva essere che così! Ma certo, si trattava senz’altro del messaggio di un ragazzo innamorato, di un corteggiatore segreto. Ma sì…si trattava solo di una coincidenza.
Epilogo – la ragazza senza lutto
“Ma si seppe – chiedo io ormai troppo curiosa per attendere la naturale conclusione del racconto – chi aveva mandato la lettera?”
No, naturalmente non si seppe mai. La famiglia non chiese, la stria niente disse. I compaesani avevano notato Rita, gettare qualcosa tra le fiamme, ma non parve strano sul momento. Molti novolesi, prima, quando alla Focara ci si poteva avvicinare di più, lanciavano vecchie cose o vi affidavano messaggi. La credenza popolare che i messaggi bruciati dal fuoco santo arrivino in Cielo, era molto comune.
“La cosa interessante, però, è che a Rita una risposta arrivò davvero!” – insisto. “E poi che cosa accadde? Scrisse ancora ad Antonio? Di quella lettera si sa nulla? Cosa fece Rita?” Ovviamente ho saltato a piè pari il fosso che separa la fantasia dalla vita. Il dubbio non mi serve, la realtà è sospesa. La storia è più importante. Rita e Antonio per me esistono e mi dolgo solo di non poter chiedere a loro stessi, come andarono le cose.
La ragazza non si sposò mai, mai indossò il lutto, ma soprattutto, mai ne sentì il bisogno. In paese si cominciò a pensare che fosse un po’ matta, malgrado gli sforzi della famiglia, di nascondere le sue stranezze. Capitava, di tanto in tanto che qualche pettegola osasse domandarle perché una bella ragazza come lei non avesse trovato un altro fidanzato e in quelle occasioni Rita rispondeva molto candidamente che lei un fidanzato ce l’aveva già, anche se per il momento erano separati.
“Ma la lettera? Che si sa della lettera?”
“Delle lettere, vuoi dire! – esclama il vecchio, molto divertito dal mio coinvolgimento – Ogni anno, per tutta la vita, il 16 di Gennaio Rita consegnò una lettera alle fiamme. E ogni anno, il 17 Gennaio Ricevette una lettera”.
“Era l’anima di Antonio? Era un burlone? Chi ne sa niente. Mia madre, per riportarmi alla realtà di contadini, che non eravamo altro, diceva che fu il padre, il quale in questa storia non compare mai, a ingannare la figlia per non vederla sprofondare nel dolore. “Ma quando il padre morì?” Chiedevo, da bambino sveglio. E la mamma rispondeva che era ora di dormire, che l’indomani, prima che sorgesse il sole, ci aspettavano i campi”.
danze tribali
Si è fatto tardi, il fuoco non accenna a estinguersi, la gente balla, chiacchiera, canta, intorno a quelle fiamme e mi secca un po’ pensare che loro, questa storia, non la conoscano. Mi secca un po’, pensare quanto sacrifichiamo allo svago inconsapevole e stolido. Il nostro ritaglio di mondo è fatto di cose intorno a cui eseguiamo ogni giorno le nostre danze tribali, per entrare in trance dagli affanni. Ma così facendo, siamo come ciechi in un oceano. E le storie, in questo oceano, sono come il calore delle correnti, che riconosciamo e seguiamo; sono come l’odore di pesce decomposto, che ci indica la presenza di una nave.
Il vecchio si incammina verso casa e io verso l’auto. Pian piano, mentre metto una buona distanza tra me e quel falò alimentato da centinaia di migliaia di fascine e da altrettante storie, mentre il gelo straccia la tregua e ricomincia a dar battaglia alle dita dei miei piedi, mi sento come fuori da un sogno. L’energia onirica del racconto si esaurisce e io mi sento imbecille, per questa disarmata concessione alla leggenda. Però mi sento anche bene.
Testo e illustrazione di Alessandra D. P.
Quest’opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 3.0 Italia.
Antonio Libonati
Aprile 26, 2020Opera visionaria di un grande autore del barocco italiano… Questo capolavoro risale al soggiorno fiorentino del pittore… Il suo cognome ricorda uno splendido fiore… 😜😜😊
Anna Paoletti
Aprile 28, 2020Quante buone ricette!!